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Nell’eretico mezzo della pausa caffè

    Nobody expects the Inquisition!

    Benedette siano certe pause caffè che più lunghe sono, più il caffè raffreddandosi sembra perfino migliore. Nel corso di una di queste, poche settimane fa, quella che nelle intenzioni voleva essere una fugace sorsata di letteratura medievale, per poi riprendere il lavoro frivoli e leggeri come non mai, nei fatti è debordata in solenne ubriacatura storica, filologica e pure un po’ gnostica.

    Percivalle chi?

    Già, perché è normale che uno, dopo pranzo, cerchi lumi a proposito di un tal Percivalle Doria, personaggio eccentrico sulla cui canzone Come lo giorno aveva redatto una tesina appena un quarto di secolo fa. Giusto ieri l’altro, insomma.

    Da allora mi ero sempre chiesto che diavolo ci facesse costui a poetare in volgare alla corte siciliana. No, dico, genovese di cotanta famiglia e menzoniato qua e là sia pure frettolosamente solo per alcuni suoi componimenti in lingua d’oc, non suona strano?

    Preso da curiosità, ho googlato come un forsennato fino a imbattermi in una interessantissima tesi di dottorando. Qui, fonti e testi alla mano, ho scoperto che Percivalle era figura tutt’altro che bizzarra e di secondo piano, tanto che:

    Per il contesto italiano, si dovrà considerare soprattutto il soggiorno di Percivalle Doria alla corte di Manfredi, che testimonia un legame diretto tra la scuola genovese e quella siciliana; esso fa seguito ai molteplici contatti che si riscontrano fra il canzoniere di Cigala e la prima produzione letteraria in volgare di sì (in particolare tra le strutture metriche del trovatore e la preistoria del sonetto di Giacomo da Lentini), oltre che a quelli, posteriori, fra la stessa produzione cigaliana, alcuni tratti dello Stilnovo e il canzoniere petrarchesco. Indizi delle mutazioni culturali che, a cavallo della metà del Duecento, hanno caratterizzato più contesti italiani, tali convergenze non suggeriscono rapporti immediati tra i diversi fenomeni letterari; tuttavia, l’affinamento della loro descrizione risulta comunque necessario: esse dimostrano da un altro punto di vista il debito contratto dalla letteratura italiana nei confronti di quella trobadorica. In questo sensoi trovatori genovesi, insieme con gli italiani, hanno segnato una tappa fondamentale nel cammino che avrebbe portato ai massimi esempi della nostra cultura letteraria medievale.

    (Alessando Bampa, La lirica trobadorica a Genova, 2015, p. 334)

    Bingo! Stai a vedere che abbiamo individuato l’anello di congiunzione tra i trovatori e i poeti Siciliani? Non esageriamo, magari si tratta soltanto di un influencer ante litteram, capace magari di ispirare innovazioni metriche che godranno di grandissima fortuna, ma nulla di più.

    E poi, si dirà, moltissimi personaggi dell’epoca, specialmente se intellettuali aristocratici, erano gente con la valigia sempre in mano, proprio come gli influencer moderni, pronti a spostarsi dove più loro aggradava o su incarico dell’Imperatore del momento, trovando facilmente ospitalità in corti bazzicate da altrettanti intellettuali pendolari (cosmopoliti, se vogliamo scomodare il buon Gramsci e farci bella figura con un nome eccellente).

    Eresia sottotraccia

    Ma aspetta un po’: questa usanza del via vai non interessava a maggior ragione parecchi profughi  trovatori in giro per l’Italia? E fin da prima di quella crociata contro gli Albigesi che ne mise in fuga parecchi, a causa appunto del Catarismo con cui, se ricordo bene, i trovatori erano tutt’uno?

    Ora, se la memoria non m’inganna, non c’è antologia che si rispetti che non metta in relazione quei viaggi con la diffusione di temi e forme trobadoriche in diverse aree della penisola, influenzando e ancor più ispirando le koiné locali a produrre letteratura autoctona.

    Altro che influencer, mi viene il sospetto che la valigia di Percivalle contenesse qualcosa di più che una manciata di sirventesi e una canzone in volgare di sì.

    A questo punto mi parrebbe addirittura doveroso chiedersi: in quanto estimatori o eredi dei trovatori, il buon Percivalle e i Siciliani, in qualche misura, erano anche Catari? E se lo erano, in che modo e in quale misura anche questo ha stimolato la produzione letteraria delle origini?

    Ancora a memoria, non ricordo nessuno che abbia mai spiegato se, cosa e quanto, del Catarismo dei trovatori, abbia attecchito o lasciato traccia nelle letterature dei vari volgari italiani. Intendo proprio l’eresia filosofico-religiosa e un sistema di valori che da essa muove, su cui si glissa lasciando intendere un po’ troppo disinvoltamente che la cortesia tutto sommato è riconducibile a certe vaghe qualità relative agli uomini di corte e null’altro. O forse, da un certo momento in poi, si è volutamente fatto intendere così, o si son volutamente fatte perdere certe tracce, velando le parole, nascondendone il senso tra le righe?

    Catari insospettabili

    Appurato che il caffè cominciava decisamente a gelarsi, ho dovuto prendermi un’altra pausa per andare a svuotare e sciacquare la tazzina. Camminando verso il lavandino, mi sono però venute in mente altre domande in un crescendo di scabrosità che finivano per mettere in secondo piano Percivalle e i suoi buoni colleghi per andare a colpire il bersaglio grosso: Dante.

    Sì, perché rimuginando di certe cose, è difficile se non proprio impossibile evitare di scomodare il Sommo fiorentino, il quale secondo diversi studi è stato sommo soprattutto nel confondere le tracce.

    O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
    mirate la dottrina che s’asconde
    sotto ‘l velame de li versi strani

    (Inferno IX, 61-63)

    Alludo precisamente alle letture di Maria Soresina, per la quale la Commedia di Dante altro non è che il percorso iniziatico di un Cataro ben camuffato, scampato al rogo grazie ai depistaggi dei primi commentatori suoi amici e del Boccaccio che mise la ciliegina sulla torta affibbiando l’aggettivo Divina all’opera.

    Ora, che diavolo c’entra Dante coi genovesi come Percivalle, ai cui probabili familiari e concittadini dedica pochi versi, tra l’altro ben poco lusinghieri, nel solo Inferno? Beh, a mio modesto avviso la risposta è: tanto quanto c’entra Arnaut Daniel, in bocca al quale, nel Purgatorio, vengono messe sì parole in lingua d’oc, ma non nello stile in cui eccelleva (il trobar clus) e senza alcun specifico richiamo a temi a lui cari, bensì per esprimere un quasi generico rimpianto e chiedere di ricordarne il dolore. Eppure parliamo del miglior fabbro del parlar materno, di un gigante della letteratura trobadorica, non di un qualunque scappato di casa, come poteva appunto apparire un Percivalle al Sommo.

    Perché tanta reticenza?

    Forse perché, come spiega la Soresina, quella potente e temibilissima istituzione altrimenti nota come Santa Inquisizione letteralmente frenava gli intellettuali dall’esprimersi in maniera compiuta, ossia libera e aperta, in particolare su argomenti spinosi.

    Dalla prima metà del Duecento in poi, se si vuol parlare di una lingua e letteratura così pregne di Catarismo, o addirittura osare di riprenderne temi e modi, occorrono vagonate di versi strani. Altrimenti, anche un fuoriclasse come Dante rischia grosso: per molto meno, difatti, la sua Monarchia è già stata messa fuori circolazione. Per poco di più, invece, si finisce al rogo, come accade a quel Cecco d’Ascoli che, perculando il suo amico Dante, sfrontatamente non canta al modo delle rane perchénon finge imaginando cose vane.

    L’innominabile istituzione orwelliana

    Con la Santa Inquisizione, in altre parole, c’è poco da scherzare.

    Anche al netto della successiva propaganda negativa protestante, essa non è un’allegra combriccola di detective specializzati in apparizioni a sorpresa come nel mitico sketch dei Monty Phyton, né miti prelati animati da nobili intenzioni pedagogiche (educare il popolo a non dar ascolto ai dilettanti che predicano in proprio, travisando il senso dei Vangeli).

    L’Inquisizione appare piuttosto come la continuazione in altri mezzi, sofisticatissimi, di carneficine ai limiti del genocidio come la Crociata contro gli Albigesi: si stabilisce quando si realizza che non basta ammazzare e depredare i parlanti affinché scompaiano per sempre la loro lingua e i loro scritti. E si pone, di conseguenza, l’obbiettivo di fermare la diffusione e l’influenza di una letteratura che veicola l’eresia in tutta Europa anche dopo la diaspora dei suoi interpreti.
    Perciò attua, da una parte, un programma orwelliano di rimozione e riscrittura di un’intera tradizione letteraria; dall’altra, tiene d’occhio tutto ciò che entra nei suoi radar, soffiando sul collo di chiunque affinché non si azzardi a mettere in discussione l’autorità della Chiesa di Roma.

    A chiusura del cerchio

    A chiusura del cerchio Trovatori-Percivalle-Siciliani-Dante, sarebbe bello, un giorno, leggere uno studio complessivo delle letterature europee trobadoriche e post-trobadoriche alla luce di censura e autocensura o, meglio, all’ombra del Grande fratello cattolico romano.

    Non mi sembra, finora, che ne sia stato pubblicato uno. Ma magari mi sbaglio: fin qui, del resto, sono andato di reminiscenze universitarie e di memorie precariamente connesse.

    Ho divagato con una tazzina in mano, internet e pdf di tesi di dottorando scaricate quasi a casaccio dalla rete anziché studi e bibliografie stampati, per cui forse dovrei fermarmi prima di sciorinare ulteriori sciocchezze su sciocchezze. Tuttavia sarebbe un peccato congedarmi proprio sul più bello, ossia proprio adesso che, posata la tazzina e rincasato dal lavoro, sto gustando la Commedia a puntate (reperibili qui su YouTube).
    Le tesi che la Soresina avanza via via mi suonano tutt’altro che strampalate. Semmai, lo stanno diventando ai miei occhi i 700 e passa anni di commentari, studi e perfino edizioni critiche che hanno fossilizzato Dante e si ostinano ancora a propinarci un campione della religione cattolica apostolica romana, talvolta un po’ pasticcione e oscuro, ma pur sempre devotissimo e in linea con il catechismo perfino quando dà della puttana alla Chiesa. Se sono riusciti in questo, si può ben comprendere, adesso, la suddivisione a compartimenti stagni dei vari autori e rispettive letterature, la scarsa attenzione agli intrecci, l’ignoranza di punti di contatto con le religioni e le filosofie orientali, la riduzione delle eresie a fenomeni di contorno e così via dicendo.

    Eppure, nessuno rischia più di essere messo sotto torchio dall’Inquisizione né, oso credere, la gogna accademica. O no?

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